A volte ritornano: i traumi e le loro ripercussioni
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Vi è mai successo di trovarvi, casualmente o volontariamente, in una situazione in cui avevate tutte le intenzioni di agire in un certo modo, senza riuscire a farlo? Anzi, paradossalmente, comportandovi proprio come non avreste mai voluto, all’esatto opposto delle vostre aspettative?

A volte, ci accorgiamo di cadere inevitabilmente in comportamenti o reazioni che sappiamo essere conclamatamente sbagliate.

Ne siamo fermamente convinti, ci detestiamo per questo, eppure.. all’atto pratico, non riusciamo ad averne il controllo! Perché?

Partiamo da un esempio concreto. A parlarcene è lo psichiatra e pediatra statunitense Daniel J. Siegel, nel suo libro Errori da non ripetere: come la conoscenza della propria storia aiuta a essere genitori.

Dopo la nascita del figlio, il dottor Siegel si accorse di essere assalito da una reazione anomala ogni qualvolta non riusciva a calmare il pianto del bambino.

Sapeva bene che la cosa più sensata e giusta da fare sarebbe stata quella di prenderlo, portarlo a sé e consolarlo.

Eppure, si trovava ad essere preda di una specie di attacco di panico: si bloccava, incapace di proferire parola, iniziava a sudare e guardava il pargolo con occhi sbarrati; assalito da sgomento, terrore, impazienza; si sentiva inerme e impotente.

In un primo momento, non riuscì a focalizzare quali potessero essere le ragioni, ed in effetti non fu semplice scavare nei ricordi e recuperare le “informazioni” necessarie alla comprensione di causa e effetto.

Di primo acchito, ipotizzò che, a suo tempo, i genitori lo avessero lasciato piangere a lungo, e avesse quindi sviluppato una sorta di paura del suo stesso pianto. A distanza di anni, il pianto del figlio stava riattivando le sensazioni che lui aveva provato da neonato.

Naturalmente è impossibile richiamare consciamente alla mente ricordi autobiografici di esperienze così precoci, a causa dei fisiologici processi di amnesia infantile.

Tuttavia, pur tentando di sviluppare narrativamente le possibili motivazioni della reazione in oggetto, non emergeva nessun elemento in grado di corroborare questa interpretazione.

Insomma, il problema persisteva e non se ne riusciva a cavare niente di utile a risolverlo.

Un giorno, mentre il figlio aveva preso a piangere, nella mente di Siegel iniziò a delinearsi un’immagine: vedeva un bambino sul lettino di un ambulatorio; era sdraiato, tenuto fermo da un suo dottore; urlava disperatamente, terrorizzato: dovevano fargli un prelievo ematico.

Si delinearono così nei suoi pensieri, in modo man mano sempre più dettagliato, gli anni del tirocinio in pediatria.

Lui e il suo collega erano di guardia, a notte fonda, all’UCLA Médical Center, dove i piccoli pazienti, per la maggior parte gravemente malati, erano sottoposti a frequenti prelievi del sangue. Ciò comportava che le vene delle braccia dei bambini fossero così rovinate da rendere praticamente impossibile eseguire i prelievi: bisognava trovarne di accessibili, in qualsiasi altra sede e con numerosi tentativi.

Per i bambini tutto ciò costituiva una vera e propria tortura.

Siegel cercava di distogliere l’attenzione dal pianto straziante dei piccoli, non li guardava in viso; cercava di chiudere le orecchie e indurire il cuore. 

“Devo riprovare ancora una volta, l’ultima”, ripeteva meccanicamente ai bambini, che non capivano nulla, tanto erano spossati e febbricitanti. Le loro urla rimbombavano nell’ambulatorio, inconsolabili.

Siegel aveva sempre pensato all’anno di tirocinio come ad un “buon anno”, sicuramente utile e formativo, anche se si sentì davvero sollevato quando il periodo terminò.

Giunto a questo punto, aveva finalmente materiale su cui riflettere, e nei giorni successivi continuò a rimuginarci su, sempre più profondamente, parlandone anche con colleghi e amici.

Perché quei ricordi traumatici non erano mai riaffiorati, prima della nascita di suo figlio?

Questa domanda sta alla base dei meccanismi di richiamo della memoria in relazione ad esperienze traumatiche non risolte.

Ci possono essere svariati motivi per i quali le esperienze traumatiche non vengono elaborate e non sono quindi disponibili a successivi richiami della memoria.

Quando si subisce un trauma, i meccanismi di adattamento e sopravvivenza fanno in modo che l’attenzione venga distolta da tutto ciò che riteniamo troppo doloroso, terrificante o inaccettabile.

É altresì possibile, come afferma il dottor Siegel, che lo stato di stress eccessivo indotto dal trauma e le secrezioni ormonali ad esso associate, inibiscano direttamente le funzioni cerebrali implicate nei processi di immagazzinamento dei ricordi autobiografici.

Ad ogni modo, Siegel aveva compreso che le ragioni della sua reazione di fronte al pianto del figlio erano da imputare alla non elaborazione del trauma subìto ai tempi del tirocinio; il suo coinvolgimento empatico con i bambini sofferenti del reparto di pediatria era stato davvero intenso, fino a sviluppare un vero e proprio senso di colpa, considerandosi fonte del dolore e delle lacrime dei poveretti. A ben pensarci, era quasi come se la vulnerabilità dei bambini costituisse una minaccia, un nemico, che poteva ostacolare lo sforzo dei tirocinanti di ignorare il senso di impotenza (o quasi) di fronte a malattie gravi e debilitanti.

Questo senso di impotenza, si era ripresentato in Siegel una volta diventato un papà vulnerabile, incapace e inerme di fronte alla vulnerabilità di suo figlio.

Però, l’importante è focalizzare la situazione e i meccanismi che ivi sottendono.

É importante vedere il tutto come un problema del genitore, non come un deficit del figlio.

É importante comprendere come, anche se animato dall’amore e dalle migliori intenzioni, il genitore possa essere vittima di meccanismi di difesa creati nel passato, che gli rendono intollerabili alcune esperienze del bambino.

Senza volerlo, il figlio può diventare oggetto di reazioni ostili verso alcune emozioni del genitore; che pian piano lederanno il suo senso interno di identità e comprometteranno la capacità, a sua volta, di tollerare ed accogliere le emozioni in questione.

Questo meccanismo psicologico costituisce la cosiddetta ambivalenza parentale, ma può innescarsi con le medesime modalità in molteplici contesti, naturalmente con sfumature differenti. 

Ricapitoliamo ed estendiamo il discorso a tutte le relazioni interpersonali: può succedere di cadere in comportamenti che razionalmente condanniamo o che ci rendiamo conto essere controproducenti, senza però capirne i motivi, né riuscire a controllarli o porvi immediatamente rimedio.

L’unica cosa da fare è fermarsi a riflettere su di noi e sulle risposte emozionali che diamo, ai nostri figli come a qualsiasi altra persona in questione.

Cercando di comprendere noi stessi, diamo la possibilità ai nostri figli di affrontare e sviluppare la loro dimensione emozionale in modo libero e sano, e alle persone che si relazionano con noi, offriamo un terreno vitale e sereno di rapporto e confronto.

A questo punto possiamo quindi valutare quale sia l’approccio migliore per affrontare le questioni non risolte: nel prossimo articolo, cercheremo di darne un quadro chiaro e più sintetico possibile.

Alla prossima!


Doriana Donno

Fonte:

Daniel J. Siegel, Mary Hartzell, Errori da non ripetere: come la conoscenza della propria storia aiuta a essere genitori, Raffaello Cortina Editore