Questa non è la recensione di un film che spero la maggior parte di voi abbia guardato – ci sarà un motivo se si tratta di uno dei 3 film nella storia del cinema, ad aver vinto tutti e 5 gli Oscar principali… Oltre ad innumerevoli altri premi… Fidatevi! – ma è il racconto di una pagina grigia della storia della medicina, attraverso la mirabile interpretazione di Jack Nicholson, nei panni di un presunto malato psichiatrico nell’America degli anni ‘60.
Il protagonista Randle Patrick McMurphy (Jack Nicholson) viene ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Salem (cittadina nello stato dell’Oregon, la stessa della “caccia alle streghe”… Coincidenze?) per attestare la veridicità della sua malattia mentale, ed è proprio qui, nel “nido del cuculo”, che tutto il film è ambientato.
McMurphy intreccia numerose amicizie con gli altri degenti della struttura (sordomuti, violenti, depressi e balbuzienti) e li incita a non arrendersi alla loro condizione, a pensare che la dignità di una vita normale appartiene anche a loro, a ribellarsi al sistema che li tiene prigionieri in quelle quattro mura ed esprimere liberamente le proprie emozioni e necessità (il tutto magnificamente riassunto in questa famosa citazione).
Tragica la conclusione (attenzione spoiler!) che vede il protagonista programmare la fuga ma che finirà con la condanna alla lobotomia da parte della commissione medica ed infine l’uccisione ad opera di un altro degente (rivelatosi non sordomuto, ma solo spaventato dal mondo esterno) che, prima di fuggire verso la libertà che aveva sognato insieme all’amico, gli fa un ultimo regalo sottraendolo a una vita da “vegetale”, priva di alcuna bellezza.
Cos’è la lobotomia?
La lobotomia è una procedura neurochirurgica che consiste nel sezionare le connessioni da e per la corteccia prefrontale, la parte più anteriore della corteccia encefalica frontale.
Questa pratica, dopo test sugli scimpanzé ritenuti di successo, nasce negli anni ‘30 del ‘900 e nel 1949 porta il neuropsichiatra portoghese Moniz a vincere addirittura il Nobel per la Medicina.
La sua tecnica era molto semplice e consisteva nel praticare dei fori nelle ossa craniche frontali ed inserire alcol etilico per disintegrare le fibre nervose.
Si riteneva utile nel trattamento di una vasta gamma di malattie psichiatriche come la schizofrenia, la depressione o l’ansia.
Perché è una pagina grigia della storia della medicina? In quegli anni furono effettuati numerosissimi interventi nel mondo (20,000 fino al 1951, solo negli USA) che, da un lato ebbero in alcuni casi un esito positivo sulla malattia ma dall’altro provocarono effetti collaterali devastanti tanto da rendere i pazienti quasi dei “vegetali”, con riduzione della spontaneità, reattività, consapevolezza di sé e dell’autocontrollo, un assopimento dell’emotività e una restrizione delle capacità intellettive.
Tristemente famoso il caso di Rosemary Kennedy, sorella di JFK, che all’età di 23 anni fu sottoposta alla lobotomia quando suo padre si lamentò con i medici degli sbalzi di umore della figlia e del suo interesse per i ragazzi.
L’intervento in sé produsse gli effetti desiderati, ma ridusse Rosemary ad uno stadio cerebralmente infantile, divenne incontinente e trascorreva ore a fissare le pareti. Le sue abilità verbali si ridussero a parole senza senso, perse l’uso di un braccio, camminava a fatica e fu confinata sulla sedia a rotelle.
Quando si risvegliarono le coscienze? A partire dalla seconda metà degli anni ‘50, quando vennero alla luce gli effetti avversi, e con la scoperta dei primi farmaci neurolettici antidepressivi e antipsicotici, la pratica cadde lentamente in disuso.
Ci sono voluti anni anche per chiudere gli ospedali psichiatrici italiani grazie alla legge Basaglia del 1978, con la quale è stata finalmente restituita dignità a una categoria di malati per troppo tempo considerata “sui generis” e sottoposta ad estreme misure di contenzione, oltreché a trattamenti invalidanti e di dubbia utilità come la lobotomia e l’elettroshock.
Oggi questi malati sono affidati alla rete dei servizi di cui fanno parte i Centri di salute mentale, i centri diurni e le strutture residenziali; molto è delegato al volontariato e alle tante associazioni che, con attività ludico-creative come il teatro, si adoperano a utilizzare anche la finzione scenica come luogo di guarigione: a tal proposito vi consiglio questa interessante puntata del programma “Che ci faccio qui” che racconta del “Teatro Patologico” di Roma.
Vi lascio con le parole della grande poetessa Alda Merini che, reduce da 10 anni di manicomio, rende tangibili le sensazioni provate dai ricoverati in quelle strutture che, fortunatamente, ci siamo lasciati alle spalle : «Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava canzoni sconce. Noi soli, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là».
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Margherita Capasso Studentessa in Medicina e Chirurgia presso l’ Università degli studi dell’Aquila. Le mie più grandi passioni: la nutella, lo sci, avere tra le mani una carta d’imbarco Ryanair.