Disforia di genere: conoscere per accogliere
Difficoltà

Se vi dicessi che sto per parlare di persone transessuali, probabilmente pensereste di sapere già tutto di loro.

Pensereste che sto per parlare di quelle persone un po’ stravaganti, che partecipano orgogliose alla “sfilata Pride” e che, per chissà quali influenze sociali, familiari, culturali, decidono improvvisamente di vestire letteralmente i panni del sesso opposto.

In realtà la questione è molto più complessa, ma allo stesso tempo talmente naturale (leggete più avanti… è scritto nel DNA!) da non meritare nessun tipo di discriminazione, solo comprensione e inclusione.

Bandiera “Transgender Pride“, il suo primo utilizzo risale al 2012 a San Francisco
[Monica Helms design, Wikipedia]

Cos’è quindi la disforia di genere? 

No, non è una parolaccia! Secondo il DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) ci riferiamo ad una notevole sofferenza – della durata di almeno 6 mesi – che l’individuo vive rispetto alla discordanza percepita tra il sesso biologico assegnato alla nascita e l’identità di genere, cioè il proprio genere espresso o vissuto.

Una menzione a parte è riservata al disturbo nei bambini, che – in genere a partire dai 2 anni – esprimono la loro identità con la volontà di indossare vestiti o avere giochi del sesso opposto: ma non solo, i criteri diagnostici sono molti.

Essere transessuali non è quindi di per sé un disturbo, ma diviene un problema nel momento in cui il soggetto si scontra con i limiti di accettazione, sia personali che della società che lo circonda, genitori compresi: la disforia di genere è anche “colpa nostra”.

Ecco infatti che ansia, depressione e tendenze autolesionistiche o peggio suicidarie, fanno capolino nella mente di tanti di questi giovani.

Ma quindi, è solo un prodotto della nostra mente e delle nostre sensazioni? 

Recenti studi stanno dimostrando come questa condizione abbia anche basi biologiche che coinvolgono fattori endocrini, neurobiologici e genetici. In particolare, in uno studio condotto dal dott. Foreman, in Australia, è stato confrontato il DNA di donne trans (male to female) con disforia di genere, con quello di uomini non trans.

Nel DNA delle prime, sono state rilevate particolari varianti nei geni di segnalazione degli ormoni sessuali responsabili della demascolinizzazione e/o femminilizzazione del cervello in utero.

Ad esempio, si è vista una overespressione del gene SULT2A1, responsabile della produzione di una glicoproteina che regola la biodisponibilità degli steroidi sessuali ed è presente nel sangue maschile fetale durante la gestazione precoce; in conseguenza degli aumentati livelli di proteina legante gli ormoni circolanti, è ridotto quindi l’effetto degli stessi sui tessuti (demascolinizzazione).

Conformare il corpo all’identità di genere, è possibile? 

È recentissima una nota dell’AIFA (agenzia italiana del farmaco) in cui si autorizza la somministrazione, con criteri stringenti, di farmaci soppressori puberali (Triptorelina) nei pazienti adolescenti con disforia di genere, oltre alla copertura degli stessi da parte del Servizio Sanitario Nazionale.

Lo scopo di questa terapia è dare tempo al giovane di esplorare ancora la sua identità di genere prima dell’avvento irreversibile dei caratteri sessuali secondari (la crescita della barba, la protrusione del pomo d’Adamo, l’aumento del seno etc.), cambiamenti fenotipici che hanno un enorme impatto psichico, oltre che fisico.

Lo step successivo è invece la somministrazione di ormoni cross-sessuali (testosterone o estrogeni), che può partire dai 16 anni e comporta l’induzione delle caratteristiche sessuali secondarie coerenti con il genere affermato. Come ultimo step, c’è chi ricorre anche alla chirurgia, sottoponendosi a interventi quali mastectomia per gli uomini, gonadectomia e/o vaginoplastica per le donne.

Tutto questo percorso clinico deve essere ovviamente guidato da un team di psicologi, psichiatri, pediatri ed endocrinologi che assiste il giovane e la sua famiglia, razionalizzando la terapia psicologica e farmacologica.
Dunque, cosa possiamo fare per loro… Pazienti, figli, fratelli, sorelle, amici?Moltissimo: possiamo conoscere, accompagnare e restare umani.


Margherita Capasso
Studentessa in Medicina e Chirurgia all’Università degli studi de L’Aquila. Le mie più grandi passioni: la nutella, lo sci, avere tra le mani una carta d’imbarco Ryanair.

Fonti e approfondimenti:

  • la pagina dell’Istituto Superiore di Sanità a riguardo;
  • l’articolo di Pediatrics riguardante i bambini transgender;
  • l’articolo riguardante la correlazione genetica fra disforia di genere e la segnalazione ormonale.
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  • Categoria dell'articolo:#MedSunday