Qualche cinefilo ricorderà la scena del famoso film di Tornatore “Nuovo cinema paradiso“, in cui la cabina di proiezione viene distrutta da un grave incendio causato dall’autocombustione della pellicola.
Ebbene, quella non era solo una trovata cinematografica! Anche nella realtà gli incendi erano infatti molto frequenti prima dell’avvento delle nuove pellicole, come, ad esempio, l’incendio degli archivi della 20th Century Fox nel 1937.
… Ma perché mai le pellicole potevano incendiarsi? La risposta sta nella chimica che c’è dietro la settima arte!
Le pellicole cinematografiche, sorelle minori delle pellicole fotografiche, sono composte da un nastro di materiale flessibile e trasparente, ricoperto da uno o più strati di un’emulsione fotosensibile (che emulsione non è, scientificamente parlando) su cui resta impressa un’immagine latente.
Fino agli anni ‘50 le pellicole erano costituite di celluloide, un materiale altamente infiammabile a base di nitrocellulosa, e solitamente plasticizzata utilizzando canfora, come si può vedere nella seconda figura, qui sotto.
L’alta infiammabilità della nitrocellulosa è dovuta al contenuto di gruppi nitro (-NO2, cerchiati in rosso in nella figura) che durante la reazione di nitrazione vanno a sostituire i gruppi –OH della cellulosa.
I gruppi nitro possono essere rilasciati dalla pellicola e, in combinazione con l’ossigeno atmosferico, in presenza di calore provocano la combustione. Questo perché i prodotti della reazione di combustione sono molto più stabili del polimero iniziale.
In effetti la nitrocellulosa nacque nell’ambito della ricerca di nuovi materiali per la guerra nel 19° secolo: la prima versione era infatti nota come fulmicotone e conteneva una percentuale di azoto molto alta che lo rendeva addirittura ESPLOSIVO!
La nitrocellulosa utilizzata come base per le pellicole invece ha una percentuale di azoto intorno all’11%, che quindi la rende “solo” infiammabile.
Per ridurre il rischio di incendi, la celluloide fu progressivamente sostituita da pellicole dette “safety films”, a base di acetato di cellulosa, che conferivano anche una maggiore resistenza meccanica.
Questa classe di composti si ottiene trattando la cellulosa con acido acetico (CH3COOH), anidride acetica ((CH3CO)2O) e acido solforico (H2SO4). Il polimero finale ha, al posto degli -OH della cellulosa, dei gruppi acetato, cerchiati in blu.
A seconda delle condizioni di reazione, anche in questo caso è possibile ottenere diversi gradi di acetilazione, ovvero quanti -OH nella cellulosa vengono sostituiti.
A seconda del grado di acetilazione, quindi, diverse proprietà del materiale cambiano… E tra queste proprio l’infiammabilità: i gruppi acetato infatti sono responsabili della maggiore sicurezza di questo materiale rispetto alla nitrocellulosa.
[per gentile concessione dell’autrice]
I problemi delle vecchie pellicole, tuttavia, non si esaurivano con l’alto rischio di combustione. Esse infatti andavano incontro a processi di degradazione auto-catalizzati: ovvero le molecole prodotte dalla degradazione sono responsabili dell’aumento di velocità della degradazione stessa.
Un esempio molto particolare è quello dell’acetato di cellulosa che va incontro alla cosiddetta “vinegar syndrome”, letteralmente “sindrome dell’aceto“: in presenza di umidità, acidi e/o calore, i gruppi acetato (CH3COO–) presenti nel polimero vengono rilasciati sotto forma di acido acetico, diffondendo quindi un forte odore di aceto, da cui il nome.
Essi decompongono la pellicola, rendendola inutilizzabile e creando un ambiente ancora più favorevole alla degradazione.
Considerando tutti questi limiti era d’obbligo trovare delle alternative e quindi i chimici sono andati in soccorso di Hollywood (mi piace pensarli in stile “Salvate il soldato Ryan!”).
Attualmente le pellicole più diffuse hanno un substrato di polietilentereftalato – PET, comunemente chiamato polietilene, la cui struttura è osservabile in figura qui sotto, polimero termoplastico molto più resistente dei suoi predecessori sia alla trazione sia alla decomposizione.
CC-BY-SA-4.0
E cosa permette a questi nastri di “imprigionare” le immagini? Come accennato all’inizio dell’articolo la base plastica è ricoperta da strati di gelatina con cristalli fotosensibili, ed è che qui che avviene la magia!
Ma questa è una storia che vi racconterò nel prossimo articolo, che trovate qui!
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Silvia Marchese
Laureata in Scienze Chimiche alla Federico II di Napoli, con una tesi sulla sintesi e l’applicazione di materiali bio-ispirati, gattofila e curiosa per natura. Nel tempo libero amo passeggiare in montagna e andare al cinema.
Fonti:
- Carraher E.C. (2003) Polymer Chemistry, Sixth Edition;
- Katsumi Katoh et al. (2005) Study on the spontaneous ignition mechanism of nitric esters (I), Thermochimica Acta,Volume 431 link;
- Fischer M.(2012) – 5.1 A Short Guide to Film Base Photographic Materials: Identification, Care, and Duplication. NEDCC Preservation Leaflets – link;
- https://en.wikipedia.org/wiki/Film_stock.
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