Ma la storia dei microrganismi che “mangiano” la plastica?

Essendo un materiale relativamente economico, resistente, igienico, inodore e durevole, dagli anni 60 si è iniziato ad utilizzare abbondantemente la plastica. Ad oggi, si stima che oltre 350 milioni di tonnellate di plastica vengano prodotte dalle industrie ogni anno per soddisfare i bisogni globali (un trend in aumento, come mostra il grafico qui sotto). 

[Produzione globale di plastica in milioni di tonnellate dal 1950 al 2019 . Fonte: Statista]

Ma si sa, la plastica è tanto utile quanto dannosa. Secondo l’OCSE, attualmente solo il 9% della plastica totale viene riciclata, il 69% viene smaltito in inceneritori o discariche ed il restante 22% viene smaltito in maniera non controllata o disperso nell’ambiente. Di fatto, da 5 a 13 milioni di tonnellate di plastica l’anno (sul totale di oltre 350 prodotte) finiscono in oceano. La plastica dispersa rappresenta un problema non indifferente per l’ecosistema e la salute. Sono infatti sempre più frequenti i casi di animali con intestini o vie respiratorie occluse dalla plastica, ed è sempre in aumento la presenza di microplastiche negli alimenti. Ciò accade perché la plastica impiega centinaia (a volte migliaia) di anni a degradarsi in natura. Il progetto archeoplastica raccoglie reperti di plastica dalle coste italiane, cercando di catalogare gli anni a cui il reperto appartiene; esso nasce per sensibilizzare sul problema dell’inquinamento da plastica ed è un ottimo modo per rendersi conto della longevità dei prodotti in questo materiale rilasciati nell’ambiente.

Perché la plastica non si degrada?

Con “plastica” si intende qualsiasi materiale (sintetico o semisintetico) che utilizza i polimeri come ingrediente principale. I polimeri sono molecole ad alto peso molecolare costituite da unità più piccole e ripetute, i monomeri. Se, ad esempio, immaginiamo un polimero come “un muro in mattoni” allora i monomeri sono i singoli mattoni che costituiscono il muro. 

Tra i polimeri più utilizzati troviamo il poliuretano (PUR), polietilene (PE), poliammide (PA), polietilene tereftalato (PET), polistirene (PS), polivinilcloruro (PVC) e polipropilene (PP). Ognuno di questi polimeri si differenzia dal tipo di monomero di cui è costituito.

Il problema principale dei polimeri è che essi sono molto resistenti, non solo da un punto di vista macroscopico (è difficile ridurre a brandelli una bottiglia in plastica) ma anche da un punto di vista microscopico! Infatti i legami chimici tra i monomeri che costituiscono i polimeri sono estremamente stabili e difficili da rompere. Tutto ciò fa sì che la plastica sia estremamente longeva e difficilmente degradabile.

Cosa succede alla plastica dispersa nell’ambiente?

Attualmente, la via principale della degradazione della plastica è l’azione combinata di agenti atmosferici ed esposizione ai raggi UV che porterebbe le fibre di plastica a rompersi rilasciando microplastiche (<5 mm) e nanoplastiche (<0.1 μm) nell’ambiente. Questo processo, come intuibile, è molto lento, perciò la plastica rimane relativamente intatta per lunghissimi anni, accumulandosi (come accade nell’Oceano Pacifico, dove è presente l’isola di plastica Pacific Trash Vortex).

Inoltre le micro e nanoplastiche prodotte riescono ad accumularsi nei tessuti microbici e animali, entrando così nella catena alimentare, con potenziali rischi per la salute animale ed umana (i possibili danni sono ancora oggetto di studio). 

Ma la storia dei microrganismi che “mangiano” la plastica?

Purtroppo, la degradazione della plastica operata da microrganismi sembra avere un ruolo decisamente minore. Ciò deriva dal fatto che la plastica sintetizzata prodotta dall’uomo è presente nell’ambiente solamente da pochi decenni, e i microrganismi ancora non hanno avuto il tempo di evolvere meccanismi efficienti per poter utilizzare efficientemente i polimeri della plastica come risorsa… chissà, forse in futuro. Ad oggi però, nonostante gli sforzi dei gruppi di ricerca e la continua pubblicazione di promettenti studi, sono pochissimi gli esempi conosciuti di enzimi (aka “proteine che distruggono legami chimici”) di microrganismi in grado di degradare i polimeri della plastica, e spesso hanno anche un’attività lenta/inadeguata.

Tra i “microrganismi mangia plastica” più noti troviamo il batterio Ideonella sakaiensis[1], in grado di utilizzare il PET come fonte di energia, il famoso “batterio mangia nylon” Flavobacterium sp. KI72[2], attivo nel demolire alcune poliammidi (PA), e il fungo Candida rugosa[3], capace di degradare il poliuretano (PUR). 

Ma gli studi più sorprendenti vengono dagli insetti: un recente esperimento ha dimostrato che le larve dei vermi della farina (Tenerbio molitor) sono in grado di nutrirsi di polistirolo (PS) e convertire circa il 50% del carbonio assimilato dalle sue fibre in CO2 [4].  Studi successivi hanno stabilito che la demolizione di polistirolo è dovuta a  dei batteri appartenenti al genere Citrobacter e Kosakonia, presenti nell’intestino di queste larve. Evidenze simili ci sono anche per le tarme (Galleria mellonella)[5]. Quello che accade in questi casi è che la plastica viene prima “triturata” meccanicamente dagli insetti che la ingeriscono, riducendola in frammenti più piccoli (e degradabili), e poi digerita chimicamente dagli enzimi specializzati dei batteri presenti nel loro intestino.

E la bio-plastica?

I polimeri presenti nella bioplastica biodegradabile, ad esempio il polibutirrato (PBAT) o l’acido polilattico (PLA),  sono molto più facilmente digeriti/demoliti dai comuni microrganismi rispetto ai polimeri di altre plastiche non-biodegradabili (PET,PVC, ecc.).

Attenzione però: non tutte le bioplastiche sono anche biodegradabili o eco-friendly.

Infatti, la produzione di bioplastica comporterebbe una maggiore eutrofizzazione ed acidificazione rispetto alle plastiche convenzionali. Inoltre alcuni materiali, benché vengano denominati bio-plastiche, essendo prodotti a partire da biomassa (come il bio-PET), rimangono comunque non-biodegradabili al pari delle plastiche convenzionali. Perciò anche questa tecnologia, seppur vantaggiosa rispetto alle plastiche comuni, presenta i suoi lati oscuri.

Quali sono le prospettive future?

Riassumendo: al momento gli enzimi conosciuti in grado di digerire i polimeri della plastica sono pochi e si limitano solo ad alcuni tipi di plastica. Ad esempio, non sono ancora noti (con sufficienti evidenze sperimentali) enzimi in grado di demolire Polivinilcloruro (PVC) e polipropilene (PP), che sono tra i principali tipi di plastica prodotta. Inoltre, molti di quelli noti hanno un’attiva troppo lenta/inefficace.

Detto ciò oggi si sta cercando sia di “trovare” nuovi enzimi per demolire la plastica, sia di “ingegnerizzare” quelli noti per renderli più performanti. Purtroppo, anche se la ricerca ci ha abituato a miracoli, è molto improbabile che nel breve termine si riesca a trovare una soluzione biotecnologica per smaltire tutta la plastica dispersa nell’ambiente in questi decenni. Un obiettivo a breve-medio termine più plausibile (e auspicabile) per ridurre la dispersione nell’ambiente è quello di una riduzione della produzione e del consumo di plastica; aumentando l’utilizzo di materiali alternativi.

Concludendo, oggi più che mai, è necessario un impegno collettivo da parte delle istituzioni e della popolazione su un uso/consumo/smaltimento responsabile della plastica, ma anche in questo caso la ricerca e i nostri microscopici amici potrebbero essere d’aiuto.

[Batterio non proprio entusiasta del suo spuntino a base di plastica (immagine generata tramite DALL·E 2).]

Fonti

Statista.com

  1. Danso, D., Chow, J., & Streit, W. R. (2019). Plastics: environmental and biotechnological perspectives on microbial degradation. Applied and environmental microbiology85(19), e01095-19.
  2. Tosa, T., & Chibata, I. (1965). Utilization of cyclic amides and formation of ω-amino acids by microorganisms. Journal of bacteriology89(3), 919-920.
  3. Gautam, R., Bassi, A. S., & Yanful, E. K. (2007). Candida rugosa lipase-catalyzed polyurethane degradation in aqueous medium. Biotechnology letters29(7), 1081-1086.
  4. Yang, Yu, et al. “Biodegradation and mineralization of polystyrene by plastic-eating mealworms: Part 1. Chemical and physical characterization and isotopic tests.” Environmental science & technology 49.20 (2015): 12080-12086.
  5. Bombelli, P., Howe, C. J., & Bertocchini, F. (2017). Polyethylene bio-degradation by caterpillars of the wax moth Galleria mellonella. Current biology27(8), R292-R293.

Luca Leomazzi

25 anni, laureato magistrale in bioinformatics all’università di Bologna. Amo il cibo senza latte, la Lazio e i gatti. Nel tempo libero cerco artisti sconosciuti su Spotify.