Materiali autoriparanti: non succede solo nei film
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[da Pixabay]

La Natura è, almeno in larga parte, in grado di autoripararsi.
Pensiamo, ad esempio, alle ossa fratturate o alle ferite sulla pelle degli animali, ma anche alle piante e alla loro capacità di riprendersi dopo essere state sferzate da una bufera.

Questa eccezionale capacità è comune sostanzialmente a tutti gli organismi complessi, ed è dovuta a particolari cellule specializzate per questo compito riparatore, come gli osteoblasti delle ossa.
Ma è possibile sviluppare materiali artificiali con questa stessa capacità autoriparatrice?

Sappiamo bene che se tagliamo a metà un foglio di carta sarà impossibile riottenerlo integro: al massimo potremo usare del nastro adesivo per mantenere insieme le due parti.

Allo stesso modo, i cocci di una porcellana che si è frantumata sul pavimento potranno rinsaldarsi solo se utilizziamo della colla, visto che certamente non si ricombineranno spontaneamente. 

Nonostante ciò, il mondo dei supereroi, ad esempio, è ricco di mantelli, scudi protettivi o androidi in grado di rigenerarsi perfettamente dopo essere stati danneggiati da un’arma o un incendio. Pura immaginazione o c’è un fondo di verità?

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Wolverine che si autorigenera in “X-men: The Last Stand
[da fandom.com]

In realtà, esistono tantissimi materiali artificiali in grado di ripararsi più o meno spontaneamente : cementi, asfalti ma principalmente materiali plastici a base di polimeri (lunghe catene molecolari ottenute assemblando piccole unità ripetitive, dette monomeri – un po’ come una catena e suoi anelli – di cui abbiamo già parlato qui, qui e qui.

Lo sviluppo di questi materiali si basa su un concetto relativamente semplice, che è la reversibilità di alcuni legami chimici, cioè la loro capacità di rompersi e riformarsi facilmente.

Per capirci, consideriamo un esempio.
In questo video, il gruppo del Prof. Wang della Pennsylvania State University (USA) mostra le proprietà di un materiale autoriparante sviluppato nei loro laboratori.

Si vede che un piccolo nastro di plastica viene tagliato in due parti e poi, riavvicinando le due metà e aspettando un po’, si riottiene un unico frammento che non conserva alcun segno del taglio precedente. Clamoroso, no!?

La strategia seguita del Prof. Wang è stata quella di sfruttare legami chimici relativamente deboli, i cosiddetti legami a idrogeno.
In pratica, il materiale utilizzato è a base di un comune composto inorganico, il nitruro di boro, che è stato opportunamente funzionalizzato/decorato con dei gruppi organici polari.

Questi ultimi si attraggono reciprocamente tramite interazioni elettrostatiche (cioè tramite l’attrazione tra piccole cariche positive e negative che si accumulano su questi gruppi), che sono mediate appunto da atomi di idrogeno.

Quindi, quando il materiale viene tagliato, queste interazioni vengono rotte e le due metà si separano. Riavvicinando le due metà, invece, l’attrazione tra i gruppi polari permette di ristabilire i legami a idrogeno, e il materiale viene rigenerato. 

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Esempio di legame a idrogeno tra due gruppi ammidici, li stessi usati dal Prof. Wang.
[per gentile concessione dell’autore]

Un aspetto importante da capire di questa strategia è questo: ciascun legame a idrogeno è debole, ma è possibile stabilirne una reta fitta e articolata, in modo che il risultato complessivo sia un legame saldo fra tutte le molecole che compongono il materiale.

Pensiamo ad esempio ad un lenzuolo: un singolo filo di cotone può essere spezzato facilmente anche a mani nude ma, se opportunamente tessuto, permette di ottenere il lenzuolo che possiamo utilizzare persino per calarci giù dal balcone (funziona, potete vederlo nei film, ma non provatelo a casa!). 

Bisogna considerare, infatti, che un materiale autoriparante che si rompe, danneggia o deforma troppo facilmente non è di alcuna utilità pratica.

Lo sviluppo di questi materiali per applicazioni nella vita quotidiana è, appunto, ancora rallentato dalla difficoltà di combinare la capacità di rigenerarsi con buone proprietà meccaniche ma anche elettriche, etc… Eppure le applicazioni potrebbero essere infinite!

Pensiamo, ad esempio, alla possibilità di utilizzare cementi autoriparanti che permettano di risanare facilmente crepe nelle facciate dei nostri palazzi, ma anche al settore aereospaziale per le tute degli astronauti che rischiano di lesionarsi durante le passeggiate spaziali, alle applicazioni in medicina per lo sviluppo di protesi e molto molto di più!

I vantaggi di utilizzare materiali più duraturi e facilmente riparabili sarebbero enormi in termini di sicurezza, ma anche di costi economici e ambientali.

Ovviamente, le strategie di sviluppo sono le più svariate e non affatto limitate allo sfruttamento di legami a idrogeno.
Inoltre, non tutti i materiali sono in grado di autoripararsi spontaneamente a temperatura e pressione ambiente come quelli del Prof. Wang. Più spesso, è necessario scaldare un po’ il materiale, o irradiarlo con radiazioni ultraviolette (UV), in modo da aumentare la mobilità delle molecole e permetterle di riarrangiarsi in corrispondenza della lesione.

In ogni caso, sanare una crepa nel muro illuminandola con una lampada per qualche ora sarebbe comunque preferibile a rifare da capo tutta la facciata, giusto? Con questi materiali, il futuro potrebbe essere molto più vicino di quello che pensiamo…

Francesco Zaccaria
Ha cominciato a specializzarsi in chimica nel 2009, da allora non ha mai smesso di divertirsi, anche se non ha ancora veramente capito che cosa sta facendo! (Twitter: @Fran_Zacc)

Fonti:

  • esempi di autoriparazioni in natura: link;
  • prospettive sull’utilizzo dei materiali autoriparanti: link1, link2, link3;
  • strategie per sviluppo materiali autoriparanti: link3;
  • il lavoro originale del Prof. Wang: link1, link2.