Planethunters: a caccia di pianeti
[NASA/JPL-Caltech]

Ai nostri giorni è abbastanza frequente sentire la notizia della scoperta di un nuovo esopianeta, ossia un pianeta al di fuori del Sistema Solare, tanto che la cosa non ci meraviglia più.

Ad oggi (o meglio, al 15 Agosto 2019, come riportato dalla NASA) sono noti e confermati ben 4043 esopianeti: un numero enorme e allo stesso tempo piccolo.

Enorme perché la prima conferma di un esopianeta risale solamente ai primi anni Novanta del secolo scorso; tuttavia, questo numero è estremamente piccolo, se pensiamo che la sola Via Lattea si stima contenga tra i 100 e i 400 miliardi di stelle.

Ma come si stabilisce che un certo corpo celeste è un esopianet
Il NASA Exoplanet Archive (ma esistono altri set di criteri) classifica come pianeti i corpi celesti che presentano le seguenti caratteristiche:

  1. massa inferiore a 30 volte la massa di Giove;
  2. il “candidato” deve viaggiare seguendo un’orbita (per capirsi, non può muoversi a caso, fluttuando);
  3. devono esserci un numero sufficiente di osservazioni del “candidato”, in modo da escludere la possibilità di falsi positivi.

Ora, potete immaginare come scovare un pianeta possa essere un’impresa abbastanza complicata, viste le sue piccole dimensioni (rispetto alle stelle) e la sua assenza di luminosità propria.
Quali sono gli strumenti e le tecniche a nostra disposizione per scovare gli esopianeti?

Come i migliori “ghostbusters”, anche i “planet hunters” hanno una serie di strumenti e tecnologie a loro disposizione. Di seguito, vi illustrerò le principali.

Una delle tecniche più efficaci con le quali trovare un pianeta è quella dei transiti, adottata ad esempio dalle missioni Kepler e TESS della NASA. 
Essa consiste nell’osservazione di eventuali (leggeri) oscuramenti di una stella causati dal transito di un corpo orbitante tra la stella e l’osservatore.
Se l’oscuramento avviene a intervalli regolari e dura per un certo periodo di tempo, allora è probabile che si stia osservando un pianeta in transito.
Con questa tecnica è possibile anche stimare il rapporto tra la grandezza della stella e la grandezza del pianeta. Infatti, fissata la grandezza di una stella, un piccolo pianeta produrrà un effetto di oscuramento minore rispetto a un pianeta più grande.

Solitamente la grandezza di una stella è nota, quindi si può determinare la grandezza del corpo orbitante tramite tale tecnica.

Illustrazione della tecnica dei transiti [Science – TESS Science Support Center NASA]

Un’altra tecnica molto efficace per stabilire la presenza di possibili esopianeti è la velocità radiale.

Questa si basa sul fatto che, in presenza di un eventuale esopianeta orbitante attorno alla stella, quest’ultima risentirà di una forza gravitazionale, motivo per cui si muoverà anch’essa in piccole traiettorie circolari o ellittiche.

Vi sarà allora un periodo in cui la stella si avvicinerà all’osservatore, e un periodo in cui si allontanerà da questo. 

Dal punto di vista spettroscopico (per un approfondimento sullo spettro delle onde elettromagnetiche vi rimando qui), al periodo di avvicinamento corrisponde uno spostamento dello spettro della stella verso il blu, mentre al periodo di allontanamento corrisponde uno spostamento dello spettro verso il rosso (vi parleremo di questi effetti di blueshift e redshift in un futuro articolo).

L’ultima tecnica che voglio accennarvi è quella del microlensing gravitazionale.

[created by NASA derivative work: Malyszkz (talk) da Wikipedia]

Nome complicato, eh?Questa ci permette però di scoprire eventuali esopianeti che si trovano molto lontani dalla Terra, arrivando a sondare le zone vicine al centro della nostra galassia.

Il microlensing gravitazionale (qui trovate una spiegazione più dettagliata) si basa sulla teoria della Relatività Generale di Einstein, secondo la quale ogni massa curva la geometria dello spazio-tempo.
In particolare, la luce non viaggerà più in linee rette, ma si adatterà alla nuova geometria.

Ora, se la massa è notevole, l’effetto di curvatura delle traiettorie dei raggi luminosi sarà apprezzabile.

Il classico effetto di microlensing gravitazionale consiste in una stella lente, interposta tra l’osservatore e la stella sorgente (vedi immagine).
Nell’ipotesi che la luce viaggi lungo linee rette, non dovremmo vedere da Terra la stella nascosta.

Tuttavia, a causa dell’effetto di microlensing gravitazionale, i raggi luminosi sono deviati dalle loro traiettorie rette, riuscendo a raggiungere l’osservatore a Terra. Questo ci permette di “vedere” la stella nascosta.
Ora, con la tecnologia a nostra disposizione non si riescono a distinguere le immagini della stella sorgente e della stella lente, ma ciò che si osserva è un aumento della luminosità della stella lente, attribuibile al fatto che in realtà stiamo osservando anche la stella sorgente.

Un’eventuale presenza di un pianeta orbitante attorno alla stella lente contribuirà ad aumentare ulteriormente la luminosità osservata, con picchi che durano qualche settimana, in base all’orbita dell’esopianeta. 

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Andrea Marangoni Laureato in Fisica, sto terminando la laurea magistrale in Fisica ad indirizzo teorico presso l’Università degli Studi di Padova.Appassionato di scienza fin da bambino, tifoso della Juventus, nel tempo libero mi piace dedicarmi all’attività fisica.“I’m just a mad man in a box”.

Fonti: