Troppo preziosa per essere gettata

Oggi, grazie anche alla mobilitazione mondiale a favore delle tematiche ambientali, quando si parla di plastica, scatta subito il collegamento con il problema della sua presenza negli oceani. Secondo un report della Fondazione Ellen MacArthur, entro il 2050 in mare vi sarà più plastica che pesci.

[Di Hans, Pixabay]

Per questa ragione la parola “plastica” è diventata, al giorno d’oggi, spesso un sinonimo di male… Tuttavia, non è proprio così, anzi. La plastica è stata così importante che l’unico premio Nobel italiano per la Chimica (Giulio Natta nel 1963, condiviso con Karl Waldemar Ziegler) venne conferito per la sintesi del polipropilene isotattico, il materiale di cui sono fatti molti oggetti quotidiani, come i tappi delle bottiglie dell’acqua.

Prima della catalisi Ziegler-Natta, ad esempio, le tinozze per contenere l’acqua calda (come quelle per fare il bagnetto ai bambini) erano in lamiera zincata. L’impatto della scoperta fu impresso nella cultura di massa grazie alla famosa pubblicità di Gino Bramieri con lo slogan: “Ma signora badi ben, che sia fatto di Moplen!”. Moplen è il nome commerciale del polipropilene isotattico.

Il termine “plastica” è, innanzitutto, un po’ troppo generico: esso infatti comprende una moltitudine di materiali polimerici dalla differente composizione chimica. Un “polimero” è una molecola “cicciona”, cioè a elevata massa molecolare, che si forma per la reazione chimica di numerose molecole più piccole, dette “monomeri”.

Una prima grande classificazione dei polimeri si basa proprio sulla reazione chimica che porta alla loro formazione. Nei polimeri di condensazione, i monomeri reagiscono tra loro espellendo una piccola molecola, come l’acqua. L’esempio più comune di polimero di condensazione è il PET, il polietilentereftalato, ovvero la plastica delle bottiglie d’acqua.

Viceversa, nel caso la reazione tra i monomeri non conduca alla produzione di una piccola molecola, si avrà di fronte un polimero di addizione. Il polipropilene, abbreviato in PP, ne è un esempio.

Lo sviluppo delle plastiche è stata una delle maggiori rivoluzioni tecnologiche del secolo scorso. Le plastiche – preferisco il plurale per evidenziare l’eterogeneità chimica – si prestano a innumerevoli applicazioni perché sono estremamente versatili. Giocando sia con la natura dei monomeri sia con i trattamenti post sintesi, è possibile conferire al polimero le proprietà desiderate. Si passa dai giubbotti antiproiettili, realizzati in kevlar, fino alle magliette tecniche, generalmente tessute in poliestere.

Ma allora qual è il problema della plastica? Il problema in realtà è proprio il suo punto di maggior forza, cioè la resistenza. L’elevata stabilità chimica di questi materiali si traduce in una lenta biodegradabilità, cioè, una volta gettate, persistono per tanto tempo nell’ambiente.

La verità è che la plastica non è “cattiva”, ma il suo uso improprio genera problemi per noi stessi e per l’ambiente. La plastica è troppo preziosa per l’usa e getta! Adottare stili di vita virtuosi, limitando gli sprechi e i rifiuti, può ridurre – se non persino eliminare – le problematiche legate a questo materiale, preservandone l’indubbia utilità.

Questo è il motivo per cui quasi quotidianamente dedico metà della pausa pranzo a raccogliere plastica, vetro e metalli in giro per la mia città. È un modo di manifestare la gratitudine per il benessere in cui vivo. In foto c’è il frutto di una delle “passeggiate ecologiche”, come ormai chiamo questa attività.

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Jonathan Campeggio
Dottorando in Scienze Molecolari presso l’Università degli studi di Padova. Jonathan si occupa di Chimica Fisica ed in particolare è un chimico teorico, cioè sviluppa teorie e software per comprendere e prevedere i risultati sperimentali.


Fondazione Ellen MacArthur:
http://www3.weforum.org/docs/WEF_The_New_Plastics_Economy.pdf