Inquinamento da Internet – L’impatto del mondo digitale sulle nostre emissioni di CO2– Parte I: i problemi

[Immagine di Gerd Altmann da Pixabay]

Sono sicura di non dirvi niente di nuovo quando affermo che le tecnologie digitali hanno un ruolo fondamentale nelle nostre vite. L’avvento di Internet ha rivoluzionato e continua a rivoluzionare il modo in cui gli esseri umani si scambiano informazioni e interagiscono con l’ambiente circostante. Con pochi clic possiamo oggi effettuare operazioni che una volta ci avrebbero chiesto di spostarci fisicamente, incontrare persone, produrre e spedire documenti: ad esempio aprire un conto in banca, richiedere un certificato al Comune, pagare le bollette, prenotare un viaggio. Poter gestire tutte queste procedure on-line permette di risparmiare tempo e soprattutto energia, riducendo le emissioni di gas serra legate per esempio ai trasporti. Non è quindi strano che lo sviluppo dell’infrastruttura digitale sia indicato come uno strumento cruciale per permetterci di rispettare gli accordi sul clima di Parigi e contenere il riscaldamento globale entro il limite di 1,5° C rispetto all’era preindustriale. 

Eppure, per quanto siamo abituati a considerare la rete uno spazio “virtuale”, essa non potrebbe esistere senza un’infrastruttura fisica, che occupa spazio, consuma risorse e… produce CO2. Ebbene sì, le tecnologie digitali hanno un impatto ambientale che non possiamo ignorare se vogliamo riuscire a trovare dei modi di vita veramente ecosostenibili. Mentre quindi ci lanciamo (giustamente) in questa rivoluzione tecnologica, vale la pena di fermarci a riflettere sull’impatto che essa avrà sul nostro pianeta e studiare soluzioni per ridurlo il più possibile. 

Consideriamo innanzitutto qualche dato. Nel 2021 4,9 miliardi di persone, il 63% della popolazione mondiale, avevano a disposizione un accesso a Internet, il doppio rispetto a solo dieci anni prima[1]. Rispetto al 2010, il traffico internet globale è aumentato di 12 volte, con un’accelerata durante il primo trimestre del 2020, quando una buona parte dell’umanità si è trovata chiusa in casa a causa della pandemia. I dispositivi più usati per connettersi a Internet sono gli smartphone, con 5,8 miliardi di dispositivi in uso nel 2020[2]. Ma cresce anche il numero di oggetti connessi, come smartwatch, altoparlanti e automobili, tanto che si stima che entro la fine del 2023 il numero totale di dispositivi connessi a internet sarà più di tre volte superiore alla popolazione mondiale. E la metà delle connessioni alla rete sarà effettuata proprio da queste macchine anziché da esseri umani[3]

Tutto questo ecosistema ha bisogno di energia per funzionare, il che vuol dire inevitabilmente emettere diossido di carbonio. Si stima che le emissioni di CO2 legate al settore digitale si aggirino oggi attorno ai 2 miliardi di tonnellate. Esse sono passate dal 2,5% delle emissioni totali nel 2013 al 3,7% nel 2019, ossia più del traffico aereo mondiale[3-4]. Le emissioni sono principalmente legate a due attività: la fabbricazione e smaltimento degli apparecchi elettronici (computer, smartphone, tablet, smartwatch, oggetti connessi) e il consumo di elettricità per far funzionare l’infrastruttura digitale. 

Rifiuti elettronici ad Agbogbloshie, Ghana. Fonte Wikimedia – Muntaka Chasant – CC BY-SA 4.0. 

La fabbricazione è responsabile da sola del 45% del consumo di energia delle tecnologie digitali e di conseguenza delle loro emissioni[2]. All’interno di un apparecchio elettronico troviamo infatti diversi metalli, come litio, rame, oro, alluminio, nichel, cobalto, palladio, titanio, indio, per citarne alcuni. Ci sono almeno 40 metalli diversi in uno smartphone, in quantità variabili da qualche milligrammo a qualche decina di grammi. Tali piccole quantità rendono molto complesso e costoso il recupero dei metalli una volta che l’apparecchio è arrivato in fin di vita, per cui il riciclaggio resta largamente impraticabile. Di conseguenza, per produrre apparecchi elettronici è necessario continuare a estrarre e lavorare materia prima grezza, il che richiede molta energia ed avviene in Paesi (come Cina, Repubblica Democratica del Congo o Brasile) che sono ancora molto dipendenti da fonti fossili. E si pone anche il problema della disponibilità di queste materie in futuro, che ovviamente non può essere infinita. 

Centro di elaborazione dati del CERN di Ginevra, 2010. Fonte Wikimedia – Florian Hirzinger (www.fh-ap.com), CC BY-SA 3.0,  

Come seconda questione, abbiamo il consumo di energia elettrica. Non parlo dell’energia che serve a ricaricare la batteria dei dispositivi che abbiamo in casa, ma della quantità ben più importante consumata dai centri di elaborazione dati, ossia le infrastrutture centralizzate che gestiscono il traffico internet. Questi centri ricevono, elaborano, trasmettono e immagazzinano dati, permettendo ad esempio di inviare mail, di guardare video in streaming o di salvare documenti su cloud. Ad ogni bit di dati trasmessi tra un utilizzatore e un centro di elaborazione, corrispondono 5 bit di dati scambiati all’interno di un centro o tra centri, per cui è facile immaginare il peso energetico di queste infrastrutture. I centri elaborazione dati funzionano 24 ore al giorno 365 giorni all’anno e devono essere climatizzati per evitare il surriscaldamento dei circuiti. Per evitare interruzioni del servizio in caso di rottura o malfunzionamento di un qualsiasi componente, tutti i generatori e le unità di elaborazione dati esistono in duplice copia (si tratta della cosiddetta ridondanza). Non vi stupirà allora apprendere che i centri di elaborazione dati nel 2020 hanno consumato tra 200 e 250 Twh (terawattora) di energia elettrica, ossia l’1% del consumo mondiale[5]. Energia che spesso proveniva da fonti fossili. 

Nonostante i continui progressi tecnologici rendano l’infrastruttura digitale sempre più efficiente, il risparmio energetico dovuto a questi miglioramenti viene continuamente sorpassato dalla domanda di servizi, che aumenta ancora più velocemente. Lo streaming di video e musica ha soppiantato il download e aumentato il carico di lavoro per i centri di elaborazione dati. L’estrazione (mining) e scambio delle criptovalute richiede enormi quantità di energia, tanto da spingere Paesi come l’Iran a vietarle sul proprio territorio. L’introduzione della rete dati 5G richiederà di installare nuove antenne e cambiare gli attuali smartphone con nuovi modelli adatti a ricevere il nuovo segnale. Tutte sfide che dobbiamo prepararci ad affrontare, se non vogliamo creare più problemi di quelli che dobbiamo risolvere. 

In un prossimo articolo parlerò delle possibili strategie per tecnologie digitali più sostenibili. Nel frattempo, vi lascio un po’ di fonti in bibliografia se voleste approfondire la questione.


Allegra Calabrese

Fonti: 

[1] Statistiche 2021 dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, disponibili all’indirizzo web https://www.itu.int/en/ITU-D/Statistics/Pages/stat/default.aspx 

[2] The Shift Project, “Lean ICT: towards digital sobriety”, disponibile all’indirizzo web https://theshiftproject.org/en/article/lean-ict-our-new-report/ 

[3] Cisco annual internet report 2018-2023, disponibile all’indirizzo web 

https://www.cisco.com/c/en/us/solutions/collateral/executive-perspectives/annual-internet-report/white-paper-c11-741490.html

[4] 27th UNEP’s Foresight Brief, disponibile all’indirizzo web 

https://www.unep.org/resources/emerging-issues/growing-footprint-digitalisation

[5] International Energy Agency, “Data centers and data transmission networks tracking report”, novembre 2021, disponibile all’indirizzo web https://www.iea.org/reports/data-centres-and-data-transmission-networks

[6] https://www.genevaenvironmentnetwork.org/resources/updates/data-digital-technology-and-the-environment/

  • Autore dell'articolo:
  • Categoria dell'articolo:#EcoFriday