Se vi chiedessi: “Qual è la cosa che fate più spesso durante la giornata?”, cosa rispondereste?
Non sono valide risposte come “Respiro” o “Mi scaccolo”… Giuro, c’è chi lo fa tutto il santo giorno, io ne ho conosciuti alcuni rari esemplari!
Suppongo non esista un’unica semplice risposta al quesito.
La nostra giornata è costellata di azioni, come dialogare con amici e colleghi, analizzare il contenuto delle nostre conversazioni, elaborare informazioni, prendere decisioni e attuarle.
Riducendo il tutto ai minimi termini, possiamo affermare con una certa sicurezza – ma col ragionevole dubbio di chi è consapevole esistano un discreto quantitativo di eccezioni – che gli esseri umani innanzitutto e soprattutto [cit. di potteriana memoria, per gli estimatori]… Pensino.
Pensare non è roba da pizza e fichi.
Glissiamo elegantemente sulla fatidica domanda: “Perché pensiamo?”.
Il poeta statunitense Ezra Weston Loomis Pound direbbe: “Pensiamo perché non sappiamo.”.
Trovo che questa sia un’ottima risposta.
Ma è anche vero che se non sapessimo proprio nulla, ma nulla nulla nulla, non saremmo in grado di formulare pensieri.
Sappiamo che i neonati vengono al mondo dotati di prerequisiti percettivi e cognitivi precoci: in fase fetale, più precisamente dalla ventesima settimana in poi, imparano a riconoscere le caratteristiche prosodiche della voce materna, ovvero ne identificano il ritmo, la musicalità.
Le loro prime esperienze ed interazioni con l’ambiente che li circonda consentono il progressivo sviluppo delle loro capacità e competenze.
Quindi, lo sviluppo delle nostre facoltà intellettive si basa essenzialmente sul rapporto con tutto ciò che ci circonda. Questo “tutto” lo esaminiamo in modo sempre più sfaccettato e complesso, man mano che il nostro cervello immagazzina informazioni.
Infatti, sono i dati via via acquisiti a costituire l’humus di nuovi pensieri, diventando a loro volta strumenti di analisi, riflessioni e infine assunzioni.
Ma dove sono questi dati?
Una volta assimilati, in che punto del cervello vengono conservati?
Si trovano in un’area precisa e delimitata o vengono sparpagliati in varie zone?
E, oltretutto: in che modo vengono ripescati e utilizzati, a distanza di tempo?
Ancora: utilizziamo l’informazione memorizzata “in purezza” o abbiamo a che fare con dati “contaminati” dal resto delle informazioni a nostra disposizione?
Lo so, lo so, ho messo troppa carne sul fuoco!
Procediamo a piccoli passi.
Il nostro cervello è come un’ “aspiratore selettivo di stimoli”: non “raccoglie” indistintamente tutto quello in cui si imbatte, ma, sin dall’inizio opera una fine categorizzazione delle informazioni acquisite.
Appena completato questo processo, poi, le immagazzina in diverse strutture cerebrali: non esiste una sola tipologia di memoria, quindi.
Se è al ricordo in senso stretto che siamo interessati, possiamo mettere da parte la tanto nota e bistrattata Memoria a Breve Termine (o MBT) che, a scanso di equivoci, non è la famosa memoria “da pesce rosso”.
Essa, infatti, rappresenta una fondamentale categoria nel processo di elaborazione delle informazioni, la cui brevità (30 secondi circa) ci permette di non accumulare spazzatura nell’encefalo, ma al contempo di “tenere a mente” piccole informazioni necessarie all’esecuzione istantanea di qualsiasi compito cognitivo, come per esempio parlare e fare conti.
Se il pesce rosso avesse una memoria a breve termine ricorderebbe benissimo quanto piccola sia l’ampolla di vetro in cui sta.
Esclusa questa, è la seconda categoria che ci interessa di più: benvenuti nel magazzino più grande e complesso dell’encefalo, sua maestà la Memoria a Lungo Termine (o MLT).
È al suo interno che coesiste il Tutto… Non me ne vogliano i Fisici, ma senza la magnificenza dell’encefalo e l’attività di processo delle informazioni il Tutto non sarebbe pensabile.
Per citare Emily Dickinson: “Il cervello è più esteso del Cielo – perché mettili fianco a fianco – l’uno l’altro conterrà.”.
Ma come funziona la Memoria a Lungo Termine? Alcuni di noi potrebbero immaginarsela come una sorta di “cassettiera infinita”, ma questa rigida immagine è ben distante dalla flessibilità elaborativa tipica dei processi mnemonici.
Occorre subito fare un’ulteriore distinzione per spiegarne “grossolanamente” il funzionamento: essa, infatti, si divide a sua volta in memoria esplicita, o dichiarativa, e memoria implicita, o procedurale.
Per intenderci: facciamo uso della prima tipologia di memoria quando raccontiamo a qualcuno del film visto tre giorni prima al cinema e della seconda quando annodiamo i lacci delle scarpe… Utilizzate, forse, un ricordo per compiere quest’azione?
Presumibilmente no: si tratta infatti della memoria implicita procedurale che vi permette di compiere “meccanicamente” questa azione ogni singola volta.
Quella meravigliosa memoria automatica che non richiede ulteriori sforzi cognitivi dopo l’apprendimento.
E se volessimo “collocare” nel cervello queste tipologie di memorie… Dove dovremmo guardare?
Potremmo iniziare orientandoci verso i lobi temporali, perché proprio qui risiede una fra le stazioni fondamentali della memorizzazione, la cui forma bizzarra ricorda un simpatico cavalluccio marino, da cui prende il nome: Ippocampo.
Da esso e/o verso esso, le informazioni si muovono seguendo diverse strade, passando per le strutture limitrofe, per poi distribuirsi in tutta la corteccia cerebrale.
Cosa fa l’ippocampo?
Il nostro cavalluccio marino è un vero e proprio “magazzino di assemblaggio”, poiché si occupa di integrare i vari ricordi interagendo con le diverse regioni della corteccia da cui queste provengono, e di consolidarli. Ciò che arriva all’ippocampo viene così fissato, segnando il passaggio dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine.
Quando queste informazioni devono essere ripescate, ecco che il nostro cavalluccio si attiva e si mette in contatto con le aree prefrontali ventro-laterali per tirare fuori gli episodi… Da dove? Esattamente dalle aree corticali che hanno elaborato gli stimoli inizialmente!
Ogni qual volta che un nuovo ricordo deve essere assimilato, accostandolo ad uno di “vecchia data” è proprio il nostro cavalluccio marino ad occuparsene, “mettendoli nello stesso cassetto” oppure “sostituendo il vecchio con quello nuovo”.
Se la memoria esplicita comincia ad esserci un po’ più chiara, diversa è la situazione per quella implicita e procedurale, di cui di cui si sa ancora meno.
Certo è che di mezzo ci siano gli eroi indiscussi del nostro “saper stare al mondo”: i Gangli della base.
Essi rappresentano il nostro “pilota automatico”, svincolandoci dall’estrema vigilanza: secondo voi chi dobbiamo ringraziare se sappiamo guidare la macchina senza pensarci troppo su?
Manca, però, all’appello ancora una struttura fondamentale: l’amigdala.
Piccolina, di forma ovoidale e situata lì accanto all’ippocampo, è molto più nota del suo “vicino di casa” perché “sede” delle emozioni.
Ed è proprio grazie a questi ultimi che un ricordo può diventare quasi immortale.
Non ci credete?
Pensateci bene: di un evento per voi particolarmente caro (o traumatico) siete in grado di ricordare quasi ogni aspetto. Luci, colori, suoni, condizioni climatiche… Potrei andare avanti ad elencarvi tutte le caratteristiche che non avete problemi a richiamare alla mente, ma su di una in particolare vorrei farvi riflettere: quella degli odori.
A chi non è mai capitato di sentire un odore e rievocare nitidamente il ricordo di uno specifico evento caratterizzato dallo stesso identico profumo?
Beh, l’amigdala è specificatamente deputata all’elaborazione degli stimoli olfattivi… Quindi…
Ecco perché odorare una maglia di una persona cara e sentirne il suo odore è un’esperienza molto più forte di affidarci alle vie visive attraverso una foto: quest’ultimo sistema di rievocazione passa dal coinvolgimento di più aree prima di arrivare alla stazione ippocampale.
Con gli odori, invece, l’elaborazione è diretta: emozione ed elaborazione dello stimolo condividono la sede,manifestandosi nella potenza rievocativa, arrivando addirittura a placare stress e ansia in caso di associazioni positive.
Una piccola curiosità a riguardo: secondo uno studio – realizzato dall’Università della British Columbia, in Canada, e pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Personality and Social Psychology – infatti, annusare la maglia del partner aiuta a combattere lo stress.
–
Doriana Donno & Lucrezia Saporito
Fonti e approfondimenti:
- per chi non ha nessuna conoscenza di neurobiologia e vuole avvicinarsi a questo argomento partendo dalla struttura del cervello, consigliamo questo sito;
- Felten, O’Banion e Maida. Atlante di Neuroscienze di Netter. Terza edizione, Edra;
- per uno sguardo più approfondito sulla struttura della memoria: https://www.stateofmind.it/tag/memoria/.