“Il ricordo è il tessuto dell’identità”
[Nelson Mandela]
Amici lettori e amiche lettrici, riprendiamo quest’oggi il filo del discorso inerente la memoria e i ricordi, parlandone in chiave psicofilosofica.
Come ci ha spiegato la nostra Lucrezia in uno degli ultimi MedSunday (se vi siete persi l’articolo, lo trovate qui), il ricordo, che per noi comuni mortali è il recupero di un’informazione passata, è un’attività che coinvolge neuroni e modifiche strutturali del cervello.
Abbiamo imparato che il celebre ippocampo – che non è il grazioso animaletto marino ma una struttura bilaterale situata nei lobi temporali mediali – è fondamentale nel processo di memorizzazione, ma non costituisce la sede dei ricordi.
E al momento, su dove esattamente siano collocati questi ultimi, il mondo delle neuroscienze non sa rispondere con precisione, ma si continua a lavorarci con passione e dedizione.
Il primo a tentare uno studio della memoria e del suo funzionamento, fu il filosofo e psicologo tedesco Hermann Ebbinghaus, vissuto a cavallo tra la seconda metà dell’800 e il primo decennio del ‘900.
È a lui che dobbiamo la scoperta della Curva di Apprendimento e della Curva dell’Oblìo. Inoltre, identificò i recency effects e primary effects, che possiamo riassumere con l’assunto: dopo aver ascoltato un elenco di parole, ricordiamo meglio le ultime che abbiamo sentito pronunciare (recency effect), mentre le prime sentite le ricordiamo meglio di quelle intermedie ma con minore accuratezza delle ultime (primary effect). Parliamo naturalmente di memoria a breve termine.
La questione venne però incalzata e criticata dallo psicologo e docente britannico Frederic Charles Bartlett, uno dei padri della psicologia cognitiva. Egli contestò le sperimentazioni sulla memoria attraverso ‘materiale inerte’, come semplici lettere e sillabe, e introdusse una questione determinante: l’interconnessione tra i ricordi e le emozioni.
Lo sperimenta ognuno di noi ogni giorno: basta una voce, un profumo, delle note musicali e veniamo immediatamente catapultati nel passato, sia esso vicino o lontano. Subito dopo, proviamo un’emozione: gioia, malinconia, rancore, turbamento. Ricordi ed emozioni costituiscono un binomio imprescindibile, ed è un dato di fatto che, quanto più un avvenimento è legato ad un’emozione significativa, tanto più quest’ultimo rimane impresso nella nostra memoria.
Proviamo a calarci in un caso specifico: pensiamo alla parola ‘cuore’. L’avremo sentita nominare centinaia di volte, in molteplici contesti, ma quale tra i tanti ricordi riaffiorerebbe non appena sentita pronunciare? La maestra che alle elementari ci spiegava il funzionamento dell’apparato circolatorio, o il nostro/la nostra partner che ci sussurra: “Nel mio cuore ci sei solo tu!”?
(brrrrr! Lo ammetto, è un esempio un po’ stucchevole ma spero sia efficace, quindi abbiate pazienza).
I ricordi sono emozioni. Sono ciò che siamo: l’insieme di tutto ciò che ci plasma, ci determina, ci identifica; ma sono anche le nostre radici, un patrimonio collettivo.
I ricordi hanno perciò anche un’importante funzione sociale. La nostra storia passata è la chiave di lettura e comprensione del presente, ma soprattutto è il principale strumento di pianificazione futura. Anche quando un traguardo appare lontanissimo, quasi impossibile da raggiungere, è bene ricordarsi che gran parte delle soluzioni già ci appartengono, sono custodite dentro di noi, nei ricordi, nell’esperienza passata, nella storia.
Insomma, ricordare è sicuramente una tra le attività più importanti affidate alla mente umana. Ed è un compito a cui dedicare tempo ed esercizio: infatti, per mantenere vivi i ricordi, è fondamentale allenare la memoria. Uno dei modi migliori per farlo è ripetere.
La ripetizione è un modo per stimolare i neuroni coinvolti nel ricordo, facendo si che si consolidi quel cambiamento strutturale avvenuto nel cervello durante la fase di apprendimento. Se un ricordo non viene sollecitato per molto tempo, si verifica un decadimento delle strutture neuronali che costituivano quella traccia mnemonica e il ricordo viene perso.
Un altro modo per allenare la memoria è (udite udite!) dormire. Il sonno aiuta a consolidare il ricordo, favorendo le connessioni tra i neuroni costituenti la traccia di memoria. Questo avviene soprattutto nella fase REM (l’ultima delle cinque fasi del sonno, durante la quale sono state osservate alcune alterazioni corporali, tra cui i movimenti rapidi degli occhi – Rapidi Eye Movement), durante la quale viene prodotta l’acetilcolina, il più importante modulatore chimico su cui si basa la memoria. Non a caso, nei malati di Alzheimer è osservabile proprio una deplezione di questo neurotrasmettitore.
Sfortunatamente, la maggior parte di noi guarda al sano sonno ristoratore come ad un sogno lontano, che la frenesia della vita moderna ha definitivamente trasformato in una leggenda metropolitana. Io quindi consiglierei di ripiegare necessariamente sulla tecnica della ripetizione.
La cosa importante però, è essere consapevoli del potere del ricordo: in esso sono racchiuse le nostre capacità, la nostra identità e le nostre potenzialità. E coi tempi che corrono, è doveroso sottolineare che ricordare ci difende dagli errori del passato e del presente: soprusi, discriminazioni e violenze sono sempre all’ordine del giorno, ma il ricordo di quelli avvenuti in precedenza limita sicuramente le ricadute.
Come disse tempo fa la senatrice Liliana Segre: “La memoria è il vaccino contro l’indifferenza”.
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Doriana Donno
Fonti:
- Psychology: an elementary text-book, Leopold Classic Library, 2017;
- Intervento del Dottor Massimo Turatto, direttore del Centro interdipartimentale di mente e cervello dell’Università di Trento, al Festival di Scienza e Filosofia, Foligno, 2018.