“Noi dovremmo trasformare la nostra vita in poesia.
Dobbiamo scavare sotto la superficie delle cose, cercare la bellezza nascosta che è dappertutto e scoprire la gloria del creato che è intorno a noi. Allora ogni giorno diventerà una poesia.
Siamo vivi, siamo vivi e un intero giorno ci attende.”
[Takashi Paolo Nagai]

[immagine tratta da ”All that remains official website”]
Quest’oggi vorrei invitarvi a riflettere sul pensiero di un personaggio che, per certi versi, dato il luogo del nostro discorrere e la sua connotazione religiosa, può apparire inappropriato: Takashi Paolo Nagai.
Nagai è stato medico radiologo nella Nagasaki della seconda guerra mondiale. Non avevo mai sentito parlare di lui prima dell’incontro con Paola Marenco, responsabile del Centro Trapianti Midollo dell’ospedale Niguarda di Milano, dipartimento di Ematologia e Oncologia. Ho avuto il piacere di parlare con lei durante il convegno tenutosi lo scorso Novembre nel Varesotto, nel corso della ventesima edizione della rassegna letteraria Duemilalibri.
Nagai è stata ed è tutt’ora una figura emblematica: rappresenta un punto di contatto tra scienza e fede.
Il medico, cresciuto in una famiglia shintoista vocata alla sacra tradizione samurai e divenuto poi uno dei simboli della cristianità nipponica e mondiale (tanto da essere stato proposto per la beatificazione), è stato un pioniere della radiologia nel Giappone del Novecento.
Nel lontano 1895, il fisico tedesco Wilhelm Röntgen scoprì casualmente i raggi X e di lì a poco vennero prodotte le prime strumentazioni in grado di fotografare la situazione “interna” di un paziente. Nagai ne introdusse l’uso sperimentale nella sua patria proprio agli albori della scoperta, quando ancora si ignoravano gli effetti devastanti dell’esposizione alle radiazioni. Inevitabilmente, i radiologi furono i primi a subirne le drammatiche conseguenze, che andavano dalle amputazioni ai tumori, divenendo dei veri e propri “martiri” del progresso radiologico. Proprio in seguito all’esercizio della sua professione, Takashi Paolo Nagai si ammalò di leucemia, che ne determinò la morte nel lontano 1951.
Prima di allora però, la sua esistenza era stata costellata di eventi significativi, talvolta drammatici, che accrebbero in modo quasi anomalo la sua sensibilità verso il prossimo e che lo spinsero, soprattutto nei suoi ultimi anni di vita, alla stesura di numerosi scritti e memorie che spaziano tra temi quali Dio, la morte, la scienza e la guerra.
Fu la morte di sua madre infatti, dopo un’emorragia cerebrale, a spingerlo a chiedersi se non ci fosse anche un’anima dentro ad ogni corpo, una sensibilità interiore dentro ad ogni paziente, che necessitasse di cure tanto quanto il fisico. Fu la guerra, la seconda bomba atomica sganciata su Nagasaki, a ridurre in cenere la sua casa e sua moglie. Fu lui stesso a ritrovarne i resti, due giorni dopo il bombardamento: in quel momento il medico si trovava in servizio presso l’ospedale universitario di Nagasaki e fu questo a salvarlo da morte certa.
Al di là della personale esperienza di vita del radiologo giapponese e delle implicazioni dello stesso con la sfera religiosa, è interessante porre l’accento su un concetto su cui il medico insiste più e più volte e che risulta davvero innovativo per quegli anni: la necessità di un rapporto empatico tra medico e paziente.
Oggi più che mai, sappiamo bene quanto sia fondamentale che il nostro medico stabilisca con noi un dialogo empatico, che conosca la nostra storia medica, che comprenda i nostri disagi psicologici nell’affrontare un problema di salute.
Noi pazienti, dal canto nostro, dovremmo facilitargli per quanto possibile questo compito poiché, diciamocelo, è tutt’altro che semplice, soprattutto in un’era dove si impone una commistione tra la figura del medico e quella del burocrate.
Bisogna tenere presente dunque due elementi portanti, sui quali si innesta un terzo, tipico della nostra contemporaneità. Ma procediamo con ordine.
In primo luogo, nella figura del medico risiede la conoscenza scientifica e tecnica necessaria alla definizione di tale professione; in secondo luogo, sono importanti le modalità di interazione tra medico e paziente, dalle quali dipende la natura del rapporto che si instaurerà tra i soggetti.
Si tratta di individui appartenenti a contesti culturali, linguistici e altresì caratteriali nettamente differenti. È fisiologico si possa incorrere in un’eventuale conflittualità, a cui il medico, forte della sua competenza (e, come ci ricorda il giuramento di Ippocrate, investito di un’etica medica paternalistica che prevede egli sia in grado di decidere in favore e per conto del paziente), deve porre rimedio.
Ed è qui che entra in gioco il terzo fattore: la digitalizzazione in ambito sanitario. Non è infatti possibile trascurare l’influenza che la tecnologia informatica esercita sulla relazione tra medico e paziente¹.
“L’uso della tecnologia per migliorare la salute e il benessere umano, e per potenziare i servizi del sistema sanitario nazionale in termini di maggiore qualità, sicurezza e possibilità di accesso alle cure, con una ricaduta positiva in termini di riduzione dei costi umani, sociali ed economici per la società” è ciò che la World Health Organisation definisce E-Health, un “termine-ombrello” che comprende strumenti che vanno dalle informazioni sanitarie online, alle cartelle cliniche elettroniche, alla telemedicina.
I vantaggi dell’E-Health sono numerosi: una maggiore partecipazione informata del paziente; maggiore efficienza e qualità dell’assistenza e delle cure in tutte le fasi attraversate dal paziente; una gestione più attenta delle patologie croniche e delle condizioni mediche gravi e molto altro.
Senza entrare nel merito delle difficoltà concrete riscontrate dagli utenti nell’approccio con gli strumenti informatici, siti web, portali e applicazioni (che meriterebbero un capitolo a parte), é innegabile che, nel complesso, i pazienti percepiscano un miglioramento del benessere personale.
Sentirsi ascoltati e supportati dai dottori e dalle strutture sanitarie, agisce sul nostro stato mentale: favorisce ad esempio il rilascio di sostanze che agiscono sul cervello, come endocannabinoidi, endorfine e serotonine, che ci pongono in uno stato più sereno, fiducioso, talvolta riducono la sensazione di dolore, e dunque contribuiscono notevolmente al successo terapeutico.
Non dimentichiamo poi il celebre “effetto placebo”: alcune ricerche recenti condotte in merito al morbo di Parkinson, dimostrano come, manipolando le informazioni date ai pazienti, viene indotto il rilascio di dopamina, un neurotrasmettitore che attenua gli effetti della malattia.
In tutto questo ensemble di elementi, si inserisce anche l’aspetto etico della faccenda.
Invero, il paternalismo medico del giuramento di Ippocrate di cui si accennava poc’anzi, è da considerarsi un po’ superato, perché fortemente asimmetrico, dato che il paziente veniva relegato ad un ruolo passivo, privo non solo della conoscenza tecnica, ma anche incapace di decidere moralmente per sé stesso.
Sì è introdotto perciò un modello di relazione che “pone al centro il principio etico del rispetto dell’autonomia del paziente“²: il consenso informato, un patto liberamente sottoscritto, in cui il medico fornisce tutte le informazioni utili e necessarie al caso e il paziente acconsente o meno al trattamento sanitario sottopostogli. Ma cosa accade quando il paziente non è autonomo? Quando è affetto da malattie mentali o costretto in uno stato vegetativo permanente? Fin dove arriva la possibilità del paziente di dare realmente un consenso libero, la capacità di comprendere le informazioni fornitegli? Dov’é più giusto porre la linea di demarcazione tra autonomia del paziente e competenza del medico?
Concepire il ruolo del medico in chiave cosi profonda e complessa, è quanto di più lontano dalla medicina dei secoli bui.
Ci troviamo sicuramente lungo un percorso macchinoso, irto di insidie e sono ancora tante le questioni da dipanare, ma al tempo stesso siamo di fronte a qualcosa di evoluto, degno di un’umanità civile e progressista; abbiamo riscoperto quanto sia preziosa una cosa che nessun automa o tecnologia sarà mai in grado di riprodurre: l’empatia.
Se oggi possiamo ancorarci a questa e ad altre certezze è grazie a chi, come Takashi Paolo Nagai, ne ha colto l’essenza tanti anni fa, lasciandocene preziosa testimonianza e seminando un concetto che oggi accenna a gemmare.
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Doriana Donno
Fonti:
– “I figli di Nagasaki. Il testamento spirituale di un sopravvissuto alla bomba atomica”, Fede & Cultura, Verona, 2019;
– “Il medico, i pazienti e i familiari” Anna Maria De Santi, Iole Simeoni, Edizioni SEED, 2009.
Note:
1. A. Ardissone, “La relazione medico-paziente nella sanità digitale. Possibili impatti sul professionalismo medico”, Rassegna Italiana di Sociologia, Il Mulino, 2018;
2. P. Borsellino, “Bioetica tra morali e diritto”, Raffaello Cortina editore, 2009.
Trovo questo articolo interessante per la modalità con cui viene affrontato e esposto l’argomento: (1) l’input è partito, provocato da un fatto ( l’esperienza di un medico giapponese) che ha suscitato (2) un interesse ad approfondire un aspetto particolare ( medicina e empatia) (3) “senza trascurare nessun fattore” presente nella relazione medico-paziente. Infine trovo molto attuale e fondamentale (4) l’importanza della relazione (medico-paziente) empatica perché è l’unica (credo) che non riduce il paziente/la persona alla sua patologia. Grazie!
Grazie a te per questo commento!