Il coccodrillo come lo fa? Anche senza accoppiarsi
[Foto: Tomás Castelazo, CC BY-SA 2.5, via Wikimedia Commons]
Gennaio 2018, Parque Reptilandia, Costa Rica. Nel recinto di Coquita, un coccodrillo americano femmina di 18 anni, vengono scoperte 14 uova. Sette sembrano fertili e vengono prelevate per essere incubate. Passano tre mesi e sei uova non hanno dato i risultati sperati, nella settima, invece, c’è un piccolo di coccodrillo perfettamente formato. Purtroppo non riesce a sopravvivere e viene classificato come nato morto.
Cosa c’è di strano in tutto questo?
Beh, è presto detto: Coquita non ha mai visto un altro membro della sua specie in tutta la sua vita. E il piccolo nato morto ha un corredo genetico che coincide con quello della madre al 99,9%.
Coquita si è “riprodotta” da sola. Il fenomeno è noto in natura ed è detto partenogenesi facoltativa, ma se siete inclini alla poesia potete scegliere anche “riproduzione virginale”.
In parole povere, una femmina riesce a mettere al mondo dei figli geneticamente simili a lei senza essere fecondata da alcun maschio. Strategia che può tornare molto utile, soprattutto se la femmina non trova alcun partner con cui accoppiarsi per molto tempo. Qualcuno dovrà pur mandare avanti la baracca della specie, in fondo.
La partenogenesi facoltativa è abbastanza nota tra i vertebrati: sappiamo per certo che ne sono capaci alcuni pesci, rettili come le lucertole e i serpenti e svariate specie di uccelli. Mancano all’appello invece delle prove sulle tartarughe e, almeno fino a oggi, sui coccodrilli. Il caso di Coquita è infatti il primo di cui si abbia testimonianza e rappresenta un importantissimo tassello per comprendere meglio le origini della partenogenesi.
Uccelli e coccodrilli (per comodità includeremo in questo termine anche alligatori, caimani e tutta l’allegra famigliola dell’ordine Crocodilia) sono infatti gli unici arcosauri ancora viventi.
Vi viene in mente chi altro abbia fatto parte del club?
Esatto. I dinosauri.
Ora che sappiamo che anche i coccodrilli, come gli uccelli, sono in grado di riprodursi per partenogenesi, è molto più facile ipotizzare che i loro antichi cugini ne fossero in grado. E se aggiungiamo le prove riguardanti anche i serpenti e le lucertole, è sensato supporre che l’origine della partenogenesi sia molto antica, dispersa in qualche arcaico antenato comune. Ma queste per ora restano ipotesi che avranno sicuramente bisogno di ulteriori prove e studi.
Ciò che possiamo fare per ora è rendere merito all’esperto del caos di Jurassic Park, il Dottor Ian Malcolm: la vita trova davvero sempre un modo.
Fonti:
https://royalsocietypublishing.org/doi/10.1098/rsbl.2023.0129
Io vorrei i 300 K
Ho caldo. In queste condizioni il mio cervello entra in reazione di fuga o fuga ma devo scrivere un post. Quindi, ecco una foto antitetica e alcune cose che potrebbero tornare utili per quantificare questo caldo.
Come sapete, per misurare la temperatura impieghiamo le scale termiche. La più utilizzata è la scala Celsius che è definita partendo dai punti di fusione ed ebollizione dell’acqua alla pressione standard, fissati a 0 e a 100. L’intervallo tra questi due punti fissi è diviso in cento parti uguali che corrispondono ai °C, le unità della scala.
Negli USA si utilizza la scala proposta dal fisico tedesco Fahrenheit che scelse come 0 la temperatura a cui fonde una miscela di ghiaccio e cloruro di ammonio. Il signor F. fissò poi un secondo punto alla temperatura del sangue di cavallo (pare che avesse usato anche alito di drago e cerume di serpente ma non è confermato). Quindi, divise il suo intervallo in dodici parti e poi ciascuna di queste in ulteriori otto, costruendo un intervallo di 96 °F. A questa temperatura fece coincidere quella normale del corpo umano (WTF!).
Tutto bene, comunque, perché la scala venne poi affinata e fu molto apprezzata per il fatto che tutte le temperature allora misurabili stavano sopra lo zero. Infatti, i punti di fusione ed ebollizione dell’acqua corrispondono a 32 °F e 212 °F. Notare come l’intervallo tra i due punti fissi non sia più di 100 gradi bensì di 180. Ma gli amici oltreoceano amano complicarsi la vita.
Queste scale ricavate tramite procedimenti empirici e fondate soprattutto sulle transizioni di fase sono definite relative e si differenziano dalle scale assolute che sono costruite a partire dallo zero assoluto, la minima temperatura teoricamente possibile.
La più importante scala assoluta è la Kelvin, le cui unità si indicano con il simbolo K, che oggi viene utilizzata dagli scienziati. Il K è l’unità di misura della temperatura termodinamica, una delle sette grandezze base del Sistema Internazionale.
Il motivo di questa scelta è semplice: le scale relative sono pratiche nel quotidiano perché costruite sul comportamento di sostanze a noi familiari, la scala Kelvin è molto più rigorosa e facilmente riproducibile perché non si basa su processi (fusione, ebollizione) che richiedono anche la definizione di condizioni esterne (pressione, ecc…) ma è definita a partire da valori fissi quali lo zero assoluto o il punto triplo dell’acqua che corrisponde alla condizione in cui coesistono le tre fasi della sostanza e ha valori unici di temperatura e pressione.
Lo 0 K è fissato, neanche a dirlo, allo zero assoluto mentre i punti di fusione ed ebollizione dell’acqua sono rispettivamente a 273.15 K e 373.15 K. È facilmente intuibile, quindi, che gli intervalli di temperatura coincidono con quelli della Celsius. Nelle due scale, infatti, i punti fissi considerati distano 100 °C e 100 K. Quello che cambia sono gli zeri, perciò per passare da K a °C basta una semplice sottrazione.
Quindi, se il vostro termometro segna 310 K, niente panico! Vi è solo partita l’impostazione della scala.
Fonti:
La fisica del miraggio
Siete in una calda giornata estiva e il sole, alto nel cielo, picchia forte.
State passeggiando per strada e, guardando in lontananza, vedete un’immagine tremolante sul manto stradale… sembra quasi uno specchio d’acqua. Ma quando è piovuto? C’è un sole che spacca le pietre.
Starete forse impazzendo? No, tranquilli!
Quello che state osservando è un miraggio, uno scherzo che la Fisica e il nostro cervello ci giocano.
Per capire come si generi questo effetto, partiamo da una situazione ideale, in cui stiamo osservando un’immagine in un ambiente a temperatura uniforme. In questo caso, alcuni raggi di luce dall’immagine giungono diretti ai nostri occhi e questa, se vogliamo, è la parte passiva.
Passiamo ora alla parte attiva, ossia come il nostro cervello percepisce l’immagine.
Questo proietta l’immagine in linea retta: perciò, se in condizioni ideali i raggi di luce da un oggetto ci arrivano direttamente, vedremo l’oggetto dove esattamente si trova.
Introduciamo ora nel nostro modellino una complicazione: un gradiente di temperatura.
In particolare, partendo dall’alto, la temperatura aumenterà man mano che ci avviciniamo al manto stradale. Ne consegue che gli strati d’aria adiacenti alla superficie stradale saranno più caldi rispetto a quelli superiori.
Cosa succede quando la luce passa da uno strato d’aria più fredda a uno strato d’aria più calda?
Viene, seppur debolmente, rifratta. In particolare, se un raggio di luce incide con un certo angolo rispetto alla verticale sulla superficie di separazione tra i due strati, il raggio di luce rifratto uscirà con un angolo maggiore.
Nel complesso, vedendo questa serie di piccole rifrazioni dovute al gradiente di temperatura tra i diversi strati, sembra che il raggio di luce si pieghi.
Se si piega a sufficienza, allora può raggiungere i nostri occhi e, a quel punto, il nostro cervello proietterà l’immagine in linea retta, quindi per terra.
Ora, come detto, queste rifrazioni deviano la luce di un piccolo angolo. Perciò, tipicamente si osserva un miraggio di un oggetto lontano, in modo tale che i raggi che arrivano siano molto inclinati rispetto alla verticale. In particolare, se un raggio di luce incidente supera l’angolo critico (angolo per il quale l’angolo di rifrazione è di 90°), si avrà riflessione totale.
Fonti:
https://www.scu.edu/illuminate/thought-leaders/phil-kesten/why-do-we-see-mirages.html
Organismi che usano i detriti del mare come zattere
Nel suo ultimo libro “Se pianto un albero posso mangiare una bistecca?”, Giacomo Moro Mauretto (a.k.a. Entropy for life) parla di organismi in grado di sfruttare la plastica dispersa in mare come vere e proprie zattere per muoversi. Questo fenomeno faciliterebbe il movimento di specie invasive in varie zone della terra.
Incuriosito da ciò ho provato a cercare qualche informazione in più nella letteratura scientifica a riguardo.
Partiamo dalle basi: gli organismi da sempre sfruttano detriti dispersi in mare come mezzo di trasporto. Queste zattere-detriti possono avere varie dimensioni (da una superficie di pochi mˆ2 fino a particelle microscopiche) e possono essere biotiche (come pezzetti di legno, alghe) o abiotiche (come plastiche, catrame).
Le zattere biotiche possono fornire cibo agli organismi che le sfruttano ma non galleggiano tanto quanto le zattere abiotiche (le plastiche sono estremamente resistenti, non vengono degradate facilmente e possono restare in mare per decenni).
Un altro fattore importante per valutare l’efficacia nel trasporto di organismi è la superficie del detrito: superfici complesse (ad esempio delle pomici), possono fornire un habitat migliore rispetto agli oggetti con una superficie liscia (ad esempio pezzi di legno molto levigato). La stabilità rotazionale dell’oggetto di trasporto si riferisce a quanto sia stabile e immobile l’oggetto mentre galleggia sull’acqua.
Se l’oggetto si muove poco e mantiene una posizione relativamente costante, offre un ambiente più adatto per gli organismi aderenti. In altre parole, gli oggetti con meno cambiamenti di orientamento forniscono un habitat migliore per una maggiore varietà di specie e un maggior numero di organismi che vi si insediano rispetto agli oggetti meno stabili, che si muovono e oscillano più frequentemente.
Questa stabilità può essere importante per la formazione di comunità biologiche sulla superficie dell’oggetto, poiché offre alle specie l’opportunità di adattarsi e prosperare senza essere disturbate da movimenti eccessivi o continui.
Concludendo: gli organismi da sempre utilizzano detriti marini per muoversi (anche lungo distanze di migliaia di chilometri!) ma il forte inquinamento antropico marino può facilitare ulteriormente l’insediamento di specie invasive in nuovi ecosistemi, fornendo loro numerose resistenti zattere e minacciando la biodiversità e gli equilibri ecologici locali.
Luca Leomazzi
Fonti:
Goldstein, M.C., Carson, H.S. & Eriksen, M. Relationship of diversity and habitat area in North Pacific plastic-associated rafting communities. Mar Biol 161, 1441–1453 (2014). https://doi.org/10.1007/s00227-014-2432-8